Il passaggio generazionale in azienda
Dalla logica del ricambio a quella del processo pianificato e assistito
Il passaggio generazionale è un tema che va inquadrato all’interno della sua dimensione quantitativa per meglio comprenderne tutta l’importanza e la delicatezza. In Italia le aziende familiari rappresentano il 65% delle imprese con fatturato superiore ai 20 milioni. Se consideriamo il totale delle imprese, la percentuale sale ad oltre il 90% contro il 60% della media europea. Sono numeri importanti che rappresentano la peculiarità tutta italiana di un tessuto imprenditoriale che contribuisce per più dell’80% al nostro PIL e che ha dimostrato, nel periodo post-pandemico, di superare la crisi con tempi e risultati che nella gran parte dei casi sono risultati migliori rispetto alle aziende di tipo non familiare. Il motivo è riconducibile alla maggiore flessibilità organizzativa e alla velocità decisionale che le caratterizza, ma anche, con buona certezza, a quelle doti di impegno, resilienza e sacrificio portate dagli imprenditori all’interno del bene di famiglia. C’è però un risvolto della medaglia di cui occorre tener conto: statisticamente solo il 30% delle imprese familiari supera il passaggio dalla prima generazione alla seconda e appena il 13% raggiunge la terza. Anche questi, in senso opposto, sono numeri importanti.
Chiarito il tavolo su cui si gioca la partita del passaggio generazionale, è utile puntare l’attenzione sugli aspetti che possono aiutare l’impresa ad affrontare con successo la sfida della continuità. Giova a tal fine partire da una prima importante riflessione che rappresenta un po’ le fondamenta delle successive: il ricambio generazionale è un processo da programmare e gestire in largo anticipo. Le aziende che non si muovono per tempo rischiano di arrivarci impreparate, determinando situazioni di possibile destabilizzazione, stallo e nel peggiore dei casi cessione o cessazione dell’impresa. Di sicuro il prolungamento del periodo di attività lavorativa conseguente all’aumento dell’aspettativa di vita (nell’ultimo decennio il numero dei leader ultrasettantenni è passato dal 17% al 25,5%) porta la generazione al comando a rimandare fin quando possibile la successione per poi dover correre frettolosamente ai ripari. A volte è complice anche un comprensibile e in alcuni casi morboso attaccamento alla propria creatura, che li conduce a sottostimare le energie e le nuove competenze necessarie a fronteggiare un mondo in continua e veloce trasformazione. Al contrario, pianificare per tempo la successione determina, come vedremo, una serie di benefici. In primo luogo, per quanto possa apparire banale e scontato, l’imprenditore che si muove in anticipo ha la possibilità di indirizzare il percorso formativo di chi gli dovrà subentrare privilegiando la scelta di studi, specializzazioni ed esperienze in linea con la posizione da ricoprire. Meno banale e scontata, però, è la sua capacità di valutare in modo obiettivo l’idoneità della nuova generazione senza incorrere in distorsioni determinate dalla natura del rapporto che li unisce. Due sono, in particolare, i possibili rischi: da un lato, quello di forzare (neanche fosse un obbligo dinastico) l’ingresso in azienda di familiari che, per aspirazioni, attitudini e capacità, non sono idonei a subentrare in una determinata posizione di responsabilità; dall’altro, all’inverso, quello di rimandare ad oltranza l’ingresso di familiari, ancorché idonei, perché percepiti come degli eterni giovani e inesperti. Come evitare allora di incorrere in questi rischi?
La risposta si ha introducendo la seconda riflessione: la conduzione di un’impresa familiare richiede, anche e soprattutto nella fase di transizione generazionale, la capacità di separare le dinamiche familiari da quelle aziendali. Non è facile, in particolare per le piccole e medie imprese, riuscire a discernere tra famiglia, proprietà e gestione. Può quindi rivelarsi conveniente ricorrere al supporto di specialisti in grado di indirizzare sia alla scelta di soluzioni di tipo giuridico e patrimoniale volte a razionalizzare i diversi ambiti (ad esempio attraverso la creazione di holding, trust e patti di famiglia), sia alla valutazione oggettiva e imparziale delle capacità della nuova generazione a ricoprire determinate posizioni (compresa la valutazione di acquisire competenze esterne alla famiglia perché non presenti all’interno della stessa), sia infine all’accompagnamento nel progressivo inserimento della nuova generazione in azienda.
Questo ultimo aspetto apre al terzo punto di riflessione: un passaggio generazionale di tipo graduale con la temporanea presenza di entrambe le generazioni consente una transizione più armoniosa e meno traumatica. Tale condizione, con le necessarie cautele che si diranno dopo, abilita infatti una serie di vantaggi. Innanzitutto, attiva un processo virtuoso di reverse mentoring in cui le due generazioni possono reciprocamente attingere al diverso patrimonio di saperi e informazioni di cui sono portatori: da una parte il vasto bagaglio di esperienze e conoscenze sull’azienda, dall’altra le più recenti novità in tema, ad esempio, di innovazione tecnologica o nuovi modelli di gestione. Ancora, rappresenta l’opportunità per il personale dell’azienda di apprezzare caratteristiche e capacità della generazione che dovrà subentrare, guadagnare una maggiore serenità sul loro futuro lavorativo e vedere confermati quei principi di meritocrazia che non lasciano spazio a favoritismi e nepotismi (fattore fondamentale per attrarre e trattenere i talenti in azienda). Infine, il periodo di affiancamento permette ai diversi portatori di interesse (fornitori, clienti, banche, enti, etc.) di fugare i comprensibili timori sulla continuità dell’azienda, di approfondire la conoscenza dei futuri successori al governo della stessa e persino sperimentare con essi le prime relazioni. Affinché, però, il periodo di compresenza possa esplicare i suoi effetti positivi, è necessario che vengano definiti con estrema chiarezza e trasparenza i rispettivi ambiti di operatività e delega e che questi vengano coerentemente rispettati, al fine di evitare un effetto boomerang in grado di destabilizzare la struttura creando disorientamento e incertezza.
E così arriviamo all’ultima riflessione: la nuova generazione deve essere sempre sostenuta e legittimata dalla precedente. Non sono rari i casi in cui, dopo l’ingresso della nuova generazione, la precedente continui a far pesare la propria presenza intervenendo in aggiunta o peggio in contrapposizione alle decisioni assunte da chi gli è subentrato, spesso perché sollecitato da pressioni che gli provengono direttamente dal personale. Questo avviene in particolare nelle aziende di tipo padronale, in cui i dipendenti mantengono un legame di fiducia e fedeltà nei confronti dell’imprenditore uscente che li porta a rifiutare il cambiamento, difendere lo status-quo e ignorare la nuova linea di comando; ove ciò avvenga, è fondamentale che la vecchia guardia supporti la nuova, che resista alla tentazione di un ritrovato protagonismo per riconoscere invece l’autorità di chi gli è subentrato, sostenendone con forza la legittimità a governare.
A conclusione, può essere utile, come fatto in apertura, portare un ultimo dato: nel prossimo decennio si stima che un milione di imprese di piccole e medie dimensioni saranno chiamate ad affrontare il problema del passaggio generazionale. La differenza tra entrare o meno nelle statistiche delle aziende che riusciranno a superare il guado dipende dalla capacità delle generazioni al comando di operare con le medesime caratteristiche che contraddistinguono il buon imprenditore: la lungimiranza di pianificare in anticipo le azioni da porre in essere, l’intelligenza di farsi supportare quando necessario da consulenti esterni, la saggezza di saper interpretare le diversità tra necessità gestionali e familiari e, infine, il coraggio di assumere le decisioni necessarie per guardare con maggiore serenità ad un futuro costruito sulla continuità.
Stefano Talamo