I talenti ci lasciano? Allora facciamo in modo che se ne vadano contenti
Pillole di marketing per il mondo HR
di Enrico Bonetti e Stefano Talamo
Parliamo di offboarding, un tema delicato che, quando riferito ai talenti, diventa anche un po’ scomodo. Perché, ammettiamolo, quando una persona su cui abbiamo puntato ci lascia, è facile essere colti da un senso di sconfitta o quantomeno di sconforto al pensiero che tutto quanto messo in campo per trattenere quella persona si sia dimostrato alla fine inefficace. Peggio di questo, solo il rischio che allo sconforto subentri anche un sentimento di acredine nei confronti del “traditore” che non ha voluto ripagare con la sua fedeltà l’impegno profuso dall’azienda.
Superato il primo momento di scoraggiamento, però, occorre recuperare la giusta prospettiva per gestire nel migliore dei modi l’uscita della persona, partendo proprio dal ricordare che un dipendente che va via non è necessariamente il risultato di un nostro fallimento e meno che mai è da considerare un dipendente sleale. Più semplicemente, è una persona che ha scelto di cambiare per il sopraggiungere di necessità che l’attuale organizzazione non è in grado di soddisfare. Quali siano i motivi (sviluppo professionale, retribuzione, esigenze familiari, relazioni con superiori e colleghi, allineamento valoriale o altro), la persona che ha deciso di dimettersi ha fatto una scelta, più o meno ragionata e a volte sofferta, che merita rispetto e soprattutto attenzione nella gestione del processo di uscita dall’azienda.
Ma perché dedicare impegno e risorse a un dipendente che oramai ha deciso di lasciarci? La risposta con buona probabilità la conosciamo già tutti e si compone di aspetti diversi che vanno da quelli più virtuosi della morale e dell’etica a quelli un po’ meno nobili della salvaguardia della reputazione. Senza avere la pretesa di aggiungere nulla di nuovo, qui si vuole solo dare una chiave di lettura diversa partendo da alcune considerazioni prese in prestito dal mondo del marketing. Iniziamo.
#1 I clienti tendono a giudicare l’esperienza complessiva del processo di acquisto in base ai picchi emotivi (i momenti in assoluto più positivi o negativi) e al modo in cui la stessa finisce. Questi momenti si imprimono maggiormente nella memoria e condizionano fortemente il giudizio sull’intera esperienza vissuta.
Immaginate di entrare in un negozio, l’ambiente è piacevole, trovate subito ciò che stavate cercando e vi recate soddisfatti alla cassa, ma… la fila è lunga, aspettate un quarto d’ora, quando arriva il vostro turno l’addetto senza degnarvi di uno sguardo vi dice che ci sono problemi a pagare con la carta e, alla vostra richiesta di fare un tentativo perché non avete contanti, vi risponde in modo scortese che non può, che dovete uscire dalla fila e rimettere al loro posto le cose che avevate preso. Quanti di voi tornerebbero ancora in quel negozio? Senza arrivare a un caso estremo come questo, spesso citato come semplice esempio di demarketing, ecco spiegato il motivo per cui alcune grandi catene posizionano subito dopo le casse dei punti di ristoro dove offrire ai clienti, magari a costo contenuto, un’esperienza piacevole e gratificante di consumo in grado di far dimenticare l’eventuale stress subito a causa dello scontrino troppo alto o dell’attesa in fila. Questi studi di consumer marketing applicati alla gestione delle risorse umane ci suggeriscono che le emozioni vissute da una persona nella fase di offboarding incidono sensibilmente sul giudizio complessivo dell’intero percorso lavorativo, levando peso e valore nella memoria alle altre esperienze vissute fino a quel momento. Ma non finisce qui.
#2 Il modo in cui il cliente concluderà l’esperienza e le emozioni che proverà faranno la differenza tra un potenziale ambassador o detractor di quel brand.
Ricollegandoci all’esempio precedente, l’ultimo momento vissuto alla cassa ha trasformato un cliente fino a quel momento soddisfatto e potenzialmente disponibile a suggerire quel negozio in un cliente insoddisfatto e (sempre in via potenziale) determinato a lasciare recensioni negative. Spostandoci sul terreno dell’HRM, equivale a dire che le emozioni vissute dal dipendente nella fase di offboarding condizioneranno il suo futuro comportamento come sostenitore o detrattore di valore della job reputation dell’azienda. E noi sappiamo fin troppo bene che, in un mercato del lavoro sempre più complesso e connesso, dominato dalla forte competizione tra aziende per accaparrarsi i migliori talenti e dalla ampia diffusione di community on-line (da quelle generaliste come Facebook a quelle specialistiche come Linkedin e Glassdoor), non ci si può permettere il lusso che un ex dipendente insoddisfatto generi un passaparola negativo in grado di scoraggiare potenziali candidati. Anche perché:
#3 Nel word of mouth, i clienti sono più inclini a condividere le esperienze negative rispetto a quelle positive.
Sarà per senso di altruismo che spinge ad agire nell’interesse degli altri o, più banalmente, per sfogo o per ripicca, sta di fatto che i consumatori sono più propensi a rilasciare opinioni su ciò che non li ha soddisfatti piuttosto che il contrario. Le recensioni negative, inoltre, vengono condivise in media dieci volte di più rispetto a quelle positive. Ne consegue pertanto che a recensire l’azienda saranno soprattutto gli ex dipendenti insoddisfatti, con un numero di pubblicazioni e con tassi di review sharing superiori rispetto alle recensioni positive lasciate da ex colleghi soddisfatti.
Se un talento, quindi, ha deciso di lasciarci e i nostri tentativi per trattenerlo sono risultati vani, il suggerimento del marketing è fare in modo che lasci l’azienda vivendo un’esperienza positiva di cui possa parlare bene. Questo non solo perché stiamo perdendo un potenziale ambassador ma anche perché, come sappiamo, la sua strada potrebbe in futuro incrociarsi di nuovo con la nostra in veste di cliente o di fornitore, oppure di recruiter, se dovesse suggerire la nostra azienda a colleghi o amici, e persino ancora come dipendente. La strategia migliore, allora, è accompagnare con attenzione il momento della sua uscita iniziando con l’impostare una comunicazione serena e trasparente non solo con la persona ma anche con il suo superiore e i colleghi, per evitare, rispettivamente, qualsiasi forma di accanimento e di misunderstanding in grado di generare negli altri preoccupazione o emulazione. E poi, ovviamente, rilevando i motivi che lo hanno indotto a cambiare. Introduciamo così il punto successivo.
#4 Per ridurre il churn rate è fondamentale partire dall’ascolto del cliente e risalire alle principali cause di insoddisfazione su cui è possibile intervenire per rimuoverle.
Anche i meno esperti di marketing conoscono l’equazione per cui trattenere un cliente costa meno che acquisirne uno nuovo e molto meno che recuperarne uno perso. Non sorprende, pertanto, che le aziende investano sempre più nella creazione di touchpoint con i clienti e nello sviluppo di sistemi tecnologicamente evoluti e sofisticati (si pensi all’utilizzo dei big data e più recentemente dell’IA) in grado di monitorare la customer satisfaction, rilevare i motivi di insoddisfazione o di abbandono dei clienti e persino segnalare quelli potenzialmente a rischio su cui agire in modo preventivo per scongiurarne la perdita. Se nell’ambito del marketing è complesso ridurre la distanza che separa l’azienda da un cliente perso, la situazione appare decisamente più sostenibile quando venga ricondotta nell’alveo della gestione delle risorse umane. In tale contesto, infatti, la funzione HR rappresenta quel touchpoint naturale a cui il dipendente in uscita si rivolge (spontaneamente o perché invitato a farlo) per parlare dei motivi alla base della sua scelta, consentendo la raccolta di informazioni utili alla valutazione della dimensione complessiva del problema e delle migliori soluzioni atte ad evitare il ripetersi di simili epiloghi. Ma c’è di più: praticare un ascolto attivo dimostrando sincera attenzione alla persona è importante per garantire che mantenga o riacquisti una percezione positiva dell’azienda e sia maggiormente incline a instaurare una relazione che possa continuare anche dopo la sua uscita. Siamo arrivati così all’ultimo punto.
#5 Il cliente va raggiunto con canali diversi e ingaggiato attraverso interazioni in grado di rafforzare la relazione e creare un legame duraturo e di valore.
È un tema ampio che il marketing declina alla luce dei tanti cambiamenti culturali, sociali, ambientali e tecnologici che si avvicendano a ritmi veloci e che configurano uno scenario in cui, sempre di più, le esperienze e le emozioni vissute dal cliente durante tutto il processo (prima, durante e dopo l’acquisto di un bene) assumono maggior valore rispetto al bene stesso. Le aziende che cavalcano l’onda del customer engagement investono attraverso la creazione di iniziative finalizzate sia a fidelizzare e mantenere ingaggiati i clienti attivi sia a conservare una pur minima relazione con quelli persi nella speranza prima o poi di recuperarli; in entrambi i casi, risulta vincente la capacità di offrire esperienze percepite di valore e in grado di mantenerli legati al brand. A conclusione, quindi, può essere utile accennare ad alcuni casi di corporate engagement realizzati per gli ex dipendenti da alcune grandi aziende, ma che possono trovare applicazione in scala ridotta anche in realtà di minore dimensione:
Eventi, per farli sentire ancora parte della squadra. Ebay organizza annualmente delle cene a cui fa partecipare insieme nuovi ed ex dipendenti dello stesso anno; Boston Consulting Group realizza periodicamente dei seminari in cui invita ex dipendenti a tenere degli speach.
Benefit, per continuare a deliziarli come prima. Nestlè consente agli ex dipendenti di acquistare i propri prodotti beneficiando della stessa scontistica riservata al personale; Linkedin permette agli ex dipendenti di continuare ad usare gratuitamente gli abbonamenti premium.
Community, per mantenere viva la relazione. Microsoft ha aperto delle pagine social riservate agli ex collaboratori; Procter & Gamble ha creato dei podcast alimentati dalle testimonianze degli ex dipendenti.
di Enrico Bonetti – Università della Campania Luigi Vanvitelli
di Stefano Talamo – Managing Partner RC&P