Un mare di recruiter
La figura del recruiter, oggi, è considerata una delle più critiche all’interno delle organizzazioni. Il mondo, dopo la pandemia di Covid19, è completamente cambiato e nonostante le aziende sembrano stiano facendo di tutto per far finta di nulla, chi cerca un lavoro ha cambiato approccio. Completamente.
Se prima la preparazione per un colloquio era un momento di grande ansia e preoccupazione, oggi l’incontro con le aziende viene visto come una sorta di evento mondano, un qualcosa che va poco più in là di un aperitivo ed è poco meno di un appuntamento galante.
Ancora, il focus non è più sul prestigio dell’azienda, sugli aspetti economici tal quali, l’internazionalizzazione: ad oggi, ciò che veramente conta è avere tanto tempo libero, poterne disporre liberamente, avere la possibilità di contare qualcosa e in autonomia, senza slogan, senza retorica.
Alla luce di ciò, la figura del recruiter ha intensificato la sua centralità nei processi di inserimento del personale (parliamo solo di quantità, intendiamoci): molte aziende, sebbene assolutamente indifferenti al fenomeno di un mercato del lavoro meno riverente e più emancipato, hanno capito che la situazione è grave e stanno investendo in maniera importante su “quelli che fanno i colloqui alla gente”.
Ora, non fraintendiamo il verbo investire: al netto delle aziende strutturate che sono incredibilmente poche, una fragorosa parte di queste considera i recruiter dei semplici robot da colloquio. E per allargare il quadro al sentire comune, non c’è alcuna considerazione, alcun rispetto e nessuna vera comprensione del mestiere del Recruiter.
Tutto ciò, inoltre, ha aumentato a dismisura la crescita di master/corsi/percorsi dalla qualità non sempre eccelsa dove tutti gli allievi escono fuori teneramente convinti che saper chiedere “lei è un problem solver?” li faccia essere dei recruiter. Tant’è, che la recente inondazione di recruiter sul mercato del lavoro (unita alla non conoscenza del mestiere da parte di troppe aziende, di cui sopra), ha creato una svalutazione così clamorosa della figura che online, su qualsiasi sito o piattaforma, troviamo offerte per ricoprire la posizione di recruiter, dove addirittura il compenso netto, di cui, attenzione, non è possibile sapere la fattispecie contrattuale di base, è pari di media a 700 euro al mese.
Sì, avete letto bene: 700 euro al mese per gestire non solo la qualità del nuovo personale all’interno dell’azienda e quindi la sua sopravvivenza, ma soprattutto per “gestire” la vita delle persone. Perché questo è da dire, anzi, urlare: un/a recruiter può fare la differenza fra una famiglia che mangia e un’altra che non può mettere il piatto a tavola. E questa piccola cosetta pare non sia interesse di alcuno. “Trovami quattro ragazzini per la settimana prossima altrimenti non posso partire con la commessa. Magari femmine, che il cliente è particolarmente attento (n.d.r.)”.
Ma perché tutto questo? La situazione è complessa e non ci sono Savonarola espiatori da indicare.
Le responsabilità sono molteplici e sono condivise: da una parte questa pletora di aziende che reputa il Talent Specialist un* professionista alla stregua di una domestica della prima borghesia terriera dell’America di metà 800; da un’altra parte le scuole e gli istituti che sfornano allievi da master in HR senza che vengano passate e condivise vere e reali competenze, nutrendo inconsapevoli illusioni e false speranze; infine i numerosi recruiter di quelli che non conoscono il proprio mestiere e il suo peso e che, in quanto figli dei loro tempi, se ne fregano di vestire qualche straccio di professionalità e alimentano inutili polemiche.
Antonio Tarotto, Hr business partner Piazza Italia